Gaspara Stampa (1951)

Gaspara Stampa in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693.

GASPARA STAMPA

Che importanza ha, in una valutazione piú libera e piú storica del Canzoniere della Stampa, il problema della sua condizione di fanciulla pura o di cortigiana, che assillò gli studiosi del primo Novecento? Problema che era il riflesso di un mito poetico fuori dai veri termini storici, in cui i contemporanei avevano sentito la gentile figura della Stampa e la sua sicura poesia, agile e cantabile, «piacevole» e melodrammatica piú che appassionata e drammatica, ricca di felici intuizioni psicologiche risolte in efficace melodia piú che in alta musica.

Già nel Settecento la riesumazione del conte Antonio Rambaldo di Collalto fu prospettata non solo come presentazione di una lirica, ma piú ancora come rivendicazione di un’alta vicenda passionale e di una figura poetica. Cosí nell’edizione di Venezia del 1738 (la prima dopo quella del 1554), oltre la breve biografia romanzata del Collalto tendente ad innalzare un monumento di gloria alla fanciulla appassionata, fedele e tradita dal nobile amante («il costantissimo amore»), i numerosi omaggi poetici di arcadi (dai due Gozzi alla Bergalli, al Seghezzi, ecc.) erano indirizzati a creare il mito poetico della Saffo italiana, che poi nell’Ottocento romantico divenne soggetto di romanzi, drammi, cantate, fra cui il romanzo dell’abilissimo e sensibile Carrer[1].

La critica romantica fino al Settembrini, che vide in Gasparina «il maggior poeta del ’500», si impadroní della figura romanzata e su quella base di «amore vero» e di dramma della fanciulla tradita costruí una valutazione sempre piú esagerata della poesia della Stampa, contrapposta quasi da sola alla schiera monotona dei petrarchisti, e poetessa della passione e della femminilità senza artifici e senza convenzioni letterarie. E l’estetismo con D’Annunzio contribuí anch’esso al falso ritratto della Stampa isolando, contro i soliti spregiati lirici del Cinquecento, il verso presto divenuto celebre e circondato di un’aura di misticismo passionale

viver ardendo e non sentire il male

ambiguamente accentuato fuori del suo contesto, che, se è uno dei sonetti piú belli dell’«amante dell’amore», non è però una espressione di passione drammatica, d’amore fatale ed unico e non è certo privo di un certo gusto petrarchistico di espressione arguta e originale:

Amor m’ha fatto tal ch’io vivo in foco,

qual nova salamandra al mondo, e quale

l’altro di lei non men stranio animale,

che vive e spira nel medesmo loco.

Le mie delizie son tutte e ’l mio gioco

viver ardendo e non sentire il male,

e non curar ch’ei che m’induce a tale

abbia di me pietà molto né poco.

A pena era anche estinto il primo ardore,

che accese l’altro Amore, a quel ch’io sento

fin qui per prova, piú vivo e maggiore.

Ed io d’arder amando non mi pento,

pur che chi m’ha di novo tolto il core

resti de l’arder mio pago e contento.[2]

Ma nel 1913 Abdelkader Salza pubblicava, nel «Giornale storico della letteratura italiana» (LXII), un lungo studio: Madama Gaspara Stampa secondo nuove indagini, in cui, con prove minute anche se non tutte ugualmente convincenti, rovesciava il ritratto della pura fanciulla tradita e lo sostituiva con quello di una cortigiana onesta, cioè di una cortigiana di alta condizione, colta e letterata come molte delle sue colleghe. Accuse di un anonimo sonettista che precisa persino in un patrizio veneto, il Gritti, il primo amante della Stampa; parole autografe assai chiare del primo editore, nel ’53, di tre poesie della Stampa, il Ferlito; versi dello Speroni, lettere amorose di letterati dai costumi non irreprensibili, riconoscimento di amicizie di cortigiane come la Baffa, biografia scandalistica dello Zilioli, furono elementi probanti portati dal seguace del metodo storico, che concludeva dal vivo del canzoniere: «Questa franchezza sensuale ci rivela in modo non dubbio la cortigiana: niun’altra donna in quel secolo avrebbe scritto questi versi (un sonetto “alla notte”), ai quali, pur nell’audace realismo, manca tuttavia quella profondità di sentimenti voluttuosi, di che è mirabile esempio la stupenda elegia VI dell’Ariosto, che essi ci ricordano»[3]. Salvava la poesia («la poetessa riesce a farci dimenticare la cortigiana»[4]), ma distruggeva il mito romantico che ne era alla base e che aveva contribuito all’ipervalutazione ottocentesca.

Numerosi difensori si levarono a difesa della eroina romantica, dal Cesareo (In difesa d’una signora, in cui si arrivò a definire la Stampa anima torturata, fantasia procellosa ed eroica[5]), alla Innocenzi-Greggio[6], al Borgese[7]. Ma il Salza replicò con nuove prove[8] e la sua tesi fu sostanzialmente accettata dal Croce[9], che giustamente se la prese con i difensori sentimentali ed estetizzanti. E lo stesso Donadoni, che in un caldo saggio sulla Stampa[10] non accettò completamente la conclusione del Salza, ripiegava però sulla figura della donna di costumi poco severi. E certo, se dalle prove del Salza e dai documenti contemporanei appare chiaro che non si può concludere risolutamente per la «professione» della Stampa, si può parlare senz’alcun dubbio di una donna che, adornata di qualità letterarie e musicali («gran poetessa e musica eccellente» la dice Ortensio Lando[11]), vivendo in una compagnia di cortigiane, dové considerare con molta larghezza le sue relazioni amorose, non rifiutando gli omaggi e gli aiuti dei suoi nobili protettori (il Collalto, lo Zen fra i noti). Né vi è nulla di eccezionale in tutto ciò per la mentalità cinquecentesca, che nella «cortigiana onesta» o nella «virtuosa di canto», libera e disposta ad amori e a legami extraconiugali, vedeva quasi il trionfo del suo amore di bellezza e di fruizione quanto piú alla libertà di costumi si accompagnavano fine educazione, qualità artistiche, interessi estetici e spirituali.

Ma per noi la fine della leggenda di Gasparina, senza togliere nulla in sé e per sé alle sue possibilità poetiche, coincide con la fine di una sopravvalutazione e di uno sfasamento della sua poesia dovuta all’accentuazione di un dramma d’amore che viene assai ridotto e ricondotto alle proporzioni di una sincera passionalità femminile, assai piú tinta di letteratura e assai meno «procellosa» e divampante di quanto prima era apparsa. La poesia del «Canzoniere» stampesco nasce dalle condizioni di una società raffinata e libera, in cui la «musica» e cantante Gasparina conduce le sue esperienze amorose e la sua attività artistica con molta maggiore libertà e dominio sentimentale e letterario di quanto si soleva immaginare per la eroina del romanzo passionale romantico.

Si riduca subito l’alone romantico e drammatico, si riduca l’eco profonda di una passione unica e travolgente, si noti il tono generale di una vita libera ed amorosa, ma soprattutto non si neghi il carattere anche di convenzione socievole e letteraria, entro cui si svolge la tenue vicenda amorosa e si affermano gli accenti piú genuini della poesia della Stampa.

Anzitutto tenue vicenda, tenue disegno romanzesco intorno a pochi momenti biografici essenziali: una prima fase gioiosa dell’amore, un soggiorno del «conte» in Francia, un ritorno, il definitivo abbandono, e subito il nuovo amore per Bartolomeo Zen, poi il pentimento. Dire diario, come dice il Croce, indica il legame occasionale delle poesie, ma io non credo tanto a questa aderenza immediata diaristica quanto alla generale verità di vicende riordinate secondo schemi canzonieristici già noti e con libertà di collocamento dei singoli componimenti, senza un ordine cronologico veristico né con un ferreo ordine di romanzo d’amore. Ciò non toglie che alcune di queste poesie possano rappresentare uno sfogo piú immediato di momenti sentimentali, ma in generale questo tono di immediatezza e di diario appare assai voluto e letterario in una larga parte di sonetti, mentre quelli piú vicini ad una cronaca immediata non sempre vengono perciò a raggiungere la migliore purezza lirica della Stampa.

Ed ecco indicati i confini della poesia della Stampa, spesso piú convenzionale di quanto si creda, e spesso, viceversa, troppo facilmente risolta in espressioni affrettate: il punto di equilibrio, di originalità artistica, si ha quando su di una linea letteraria poco profonda, ma chiara e ben posseduta (quella di una apparente drammaticità «piacevole» e cantabile), la ispirazione amorosa della Stampa sincera, ma non drammatica, si costruisce poeticamente in movimenti agili ed elastici, canori e aggraziati, non violenti e mai privi di una tenerezza sensibile che può farsi sorridente anche nel momento in cui enuncia i suoi crucci e le sue ansie. E si guardi bene che ciò non è una diminuzione, ma una precisazione della natura della poesia stampesca, inutilmente portata ai toni di Saffo e viva davvero nella sua genuinità poco profonda, nella sua ricerca poetica bene indirizzata ed abile; direi quasi un tono di improvvisazione riconquistata attraverso un’elaborazione adeguata ad un canto poco profondo, ma splendido di grazia sensibile, di movimenti slanciati e liberi, di un disegno ben concluso e senza sforzo apparente, senza violenza e senza echi troppo fondi[12].

La tesi dell’amore unico e fatale si accompagnò di solito con quella della poetessa inconsapevole e magari «malgrado se stessa»[13], del semplice diario d’amore[14], del romanzo senza preoccupazione di stile.

La verità è che la mancanza di profonda elaborazione artistica coincide con limiti di fantasia sincera e poco profonda, ma che, nei limiti della sua potenza e della sua intenzione (notevole coscienza e quasi «furberia» ed abilità non mancarono alla Stampa), la poetessa veneta si preoccupò dello stile – come si può vedere da moltissimi sonetti in cui lamenta l’inadeguatezza della sua arte al suo soggetto o si fa «pusilla» con una certa leziosità di donna debole e sentimentale che nella sua insistenza ci rivela una chiara preoccupazione letteraria[15] – e d’altra parte va ricordato che, accanto al canzoniere per Collaltino, alle rime per lo Zen e a quelle di pentimento, ci rimangono numerose rime di occasione per diversi letterati e signori del tempo che testimoniano la vita di relazione illustre e letteraria della «virtuosa di canto» e poetessa mentre dimostrano la sua attività letteraria non dovuta solamente all’urgenza del suo animo innamorato: anche se è nelle altre poesie del Canzoniere e non in queste, deboli, convenzionali ed esteriormente petrarchistiche, che la Stampa ottiene i suoi risultati piú veri e piú impegnativi.

Ed anche a proposito del petrarchismo, bisogna dire che la interpretazione petrarchistica della Stampa è certamente assai personale, ma che essa può sembrare solo superficialmente una autentica ribellione. In realtà la lettura del canzoniere convince della volontà di adesione al linguaggio e ai moduli platonico-petrarchistici, ma, nell’inclinazione tipica della sua ispirazione, tale adesione si risolve in una utilizzazione melodrammatica, cantabile, «piacevole», tenera, di motivi alti e spirituali che essa non riesce ad adeguare e ad esprimere originalmente quando tenta la via della «gravità», della solennità decorosa e monumentale alla Colonna o la drammaticità impetuosa di un Tarsia o la meditativa composizione musicale di un Della Casa.

È questo il punto che va chiarito e che è fondamentale per una valutazione non arbitraria della Stampa: non Saffo novella e non semplice improvvisatrice e diarista, ma poetessa di tenue e sincera sostanza poetica, di autentica ed esile ispirazione, la cui natura femminea e sentimentale si piega ad una omogenea ricerca di tenero canto aggraziato, di toni piacevolmente melodrammatici. Nella sua limitata perizia letteraria (non dunque superamento del petrarchismo in fiammeggiante genialità passionale) – limitata, ma consapevole ed abile – la Stampa sa volgere la sua forza espressiva verso risultati di «piacevolezza» in senso cinquecentesco, ritrovati dentro una trama «piacevole» di romanzo d’amore, a base poco complessa e piú facilmente risolta in esiti di canto nella naturale via della sua ispirazione. Le sue rime son veramente, come dice al sonetto XVI, «scritte e cantate» e la mèta del canto è davvero la mèta piú genuina della sua poesia. Ed è perciò che anche la sua condizione di «virtuosa di canto e musica» sembra perfettamente corrispondente alla direzione essenziale della sua poesia melodiosa e poco approfondita, non priva mai di un’eco cantabile e quasi della lontana suggestione di una dizione accompagnata dall’arpa.

Quale fosse la passione di Gasparina per il canto e la musica si può sentire attraverso i sonetti (XXX e XXXI) che descrivono Collaltino che canta: il tema è convenzionale e si aggiunge alle tante lodi del «mirabile» conte, ma i versi che descrivono la virtú del suo canto dan bene l’impressione del valore particolare che gli dava la «virtuosa» Gasparina e come questa fosse per lei l’arte vera, la forma essenziale della catarsi sentimentale dell’arte, del suo valore di suasione, di incitamento, di elevazione fantastica.

Ecco, per esempio, il sonetto XXX:

Fra quell’illustre e nobil compagnia

di grazie, che vi fan, conte, immortale,

s’erge piú d’altra e vaga stende l’ale

del canto la dolcissima armonia.

Quella in noi ogni acerba cura e ria

può render dolce, e far lieve ogni male;

quella, quand’Euro piú fiero l’assale,

può render queto il mar turbato pria.

Il giuoco, il riso, Venere e gli Amori

si veggon l’aere far sereno intorno,

ovunque suoni il dolce accento fuori.

Ed io, potendo far con voi soggiorno,

a l’armonia di quei celesti cori

poco mi curerei di far ritorno.

Questa esaltazione del canto – sia pure in mezzo a termini convenzionali, ma con una simpatia e una partecipazione veramente indicative – sembra alludere all’originale ispirazione della Stampa, al suo stesso fondamentale stato d’animo sincero e sensibile di innamorata dell’amore e dei suoi «dolci martiri», delle sue sofferenze inscritte in un essenziale cerchio di dolcezza.

Come abbiamo visto dal sonetto per lo Zen, al di là del verso troppo esaltato di viver ardendo e non sentire il male, c’è un’essenziale posizione dell’animo: apertura al giuoco appassionante dell’amore, alla sua ricchezza di sensazioni, di piacere, di dolore non fine a se stesso, ma gradevole come pretesto di rimpianto, di dolce lamento, di canto che sempre – se pure in maniera piú esteriore e quasi fisica – «disacerba il duolo», trasforma il dramma in elegia tenera, in patetico melodramma. Tutto il canzoniere amoroso della Stampa è involto in un alone di patetico sorriso, di letizia canora. E qui era anche la coincidenza della ispirazione della Stampa con una delle direzioni della lirica cinquecentesca: quella della «piacevolezza»[16]. Suoni freschi, soavi, aggraziati, poco densi e cupi, sviluppi poco energici dei versi, legati con un fluire abbondante e loquace, ricerca di motivi rapidi, brevi, poco complessi su cui – nel tema generale della vita amorosa sentita come tutta una serie di attese, di brevi gioie, di soavi rimpianti, e di nuove illusioni piacevoli – sia possibile costruire organismi snelli, eleganti e comprensibili.

Sí che, quando la Stampa tenta i toni piú alti petrarcheschi, si deve per forza limitare a riproduzioni esterne, poco riuscite, come nella canzone LXVIII in cui il modello altissimo delle «Chiare fresche e dolci acque» è trasformato in una fredda «causerie» amorosa di scarsissima consistenza (e qui meglio si sente il limite di profondità del linguaggio della Stampa) o come nei sonetti XLVIII, LXVI, LXXVIII, LXXXVI, CLXXIV, in cui lo sforzo di rilievo concettoso si risolve in frivolezza. Perché essa non può uscire dal suo vero tono, dal suo tono di suasione lene e sorridente anche quando parla di dolori e di tormenti nella trama delicata di sentimento di vinta d’amore.

Non sono i «pelaghi d’umori» (XLIV) a farci fremere per la loro drammaticità, ma è la melodia tenera in cui essi si presentano con movimento melodrammatico che ci convince da un punto di vista poetico.

Se tu vedessi, o madre degli Amori,

e teco insieme il tuo figlio diletto,

l’accese e vive fiamme del mio petto,

a quali altre fur mai pari o maggiori;

se tu vedessi i pelaghi d’umori,

che, dapoi che ’l mio cor ti fu soggetto,

mercé del vago e grazioso aspetto,

per questi occhi dolenti verso fuori;

so ch’avresti pietà del mio gran pianto

e de la fiamma mia spietata e ria,

che per sfogar talor descrivo e canto.

Ma voi ferite, e poi fuggite via

piú che folgor veloci, ed io fra tanto

resto col pianto e con la fiamma mia.

Non c’è uno scavo profondo nelle immagini e nelle parole a volte banali e melodrammatiche (e in tal senso valgono tutte le accentuazioni drammatiche: «signor crudele ed empio», «crudo e selvaggio», «empio tiranno», «disdegnoso, inumano ed inclemente», ecc.), ma una linea melodica e vivace tratta le «voci» per il loro breve fremito di aggraziata passionalità e le scioglie tutte in una dolce fluidità assicurata soprattutto dalle chiuse (il punto naturalmente di maggiore impegno e di maggiore rischio di tutti questi sonettisti) insieme eleganti di una semplicità preziosamente popolaresca.

Le chiuse poi (a volte sentenziose di una saggezza comune e di buon senso, a volte piú risolute in una facile definizione di fatalità) accentuano la felice scioltezza, la conclusione senza ostacoli, il fluire senza urto:

Questo e quello il mio cor nutriste e pasce,

e questo e quel mi dà martir e gioco:

cosí fui destinata entro le fasce.

(XLV)

E cosí van calcolati in questa poesia il gusto del diminutivo, dell’inciso pausante e smorzante, di una dolce discorsività e quasi loquacità di cui possono essere esempi assai vivi i sonetti L e LVII:

Poich’Amor mi ferí di crude ponte,

vostra mercé, qual sete vivo e vero,

v’ho scolpito nel fronte e nel pensiero,

sí che nessun sembiante piú s’affronta.

Il viso stesso, il proprio stesso fronte,

il proprio ciglio umilemente altero,

gli occhi stessi, i due sol de l’emispero,

le stesse grazie e le fattezze conte;

in questo il mio ritratto è dissimile:

ché qual mi sete vi mostra alteretto,

là dove sete a tutti gli altri umile.

Ora, per far ch’anch’io v’abbia perfetto,

per far ch’anch’io pur v’abbia a voi simile,

emendate anche meco un tal difetto.

Sonetto L.

I risultati migliori si hanno cosí sulla direzione già indicata, su temi piani e modesti, in ricerche di espressione poco ambiziosa, quando la poetessa direttamente evoca i suoi sentimenti fondamentali fra gioia e rimpianto, fra beatitudine e delicato lamento, fra idillio ed elegia affettuosa, in un tenue rilievo melodrammatico, senza tentativi di dramma lambiccato e d’altra parte in una misura intelligente di piccolo quadro, dove istinto e calcolo coincidono nella conquista di un tenero canto:

Oimè, le notti mie colme di gioia,

i dí tranquilli, e la serena vita,

come mi tolse amara dipartita,

e converse il mio stato tutto in noia!

E perché temo ancor (che piú m’annoia)

che la memoria mia sia dipartita

da quel conte crudel, che m’ha ferita,

che mi resta altro omai, se non ch’io moia?

E vo’ morir, ché rimirar d’altrui

quel che fu mio quest’occhi non potranno,

perché mirar non sanno altri che lui.

Prendano essempio l’altre che verranno

a non mandar tant’oltre i disir sui,

che ritrar non si possan da l’inganno.

(LXXXIII)

Non potenza, drammaticità, complessità, né musica tempestosa e profonda, ma linea agevole e felice, capacità di lieve disegno in cui si liberano sentimenti spontanei e vivaci in limpido canto melodrammatico. Come in un altro esempio notevole, il sonetto CLIII:

Se poteste, signor, con l’occhio interno

penetrar i segreti del mio core,

come vedete queste ombre di fuore

apertamente con questo occhio esterno,

vi vedreste le pene de l’inferno,

un abisso infinito di dolore,

quanta mai gelosia, quanto timore

Amor ha dato o può dar in eterno.

E vedreste voi stesso seder donno

in mezzo a l’alma, cui tanti tormenti

non han potuto mai cavarvi, o ponno;

e tutti altri disir vedreste spenti,

od oppressi da grave ed alto sonno,

e sol quei d’aver voi desti ed ardenti.

Ricca di un proprio fuoco poetico, dotata di una abilità letteraria che, pur poco approfondita e scartando le soluzioni piú complesse e piú accanitamente tecniche, fu impiegata a riconquistare artisticamente quel tono di canto melodioso e agevole che poteva rimanere sul piano di improvvisazione piú facile, la Stampa offre al lettore storicamente preparato, se non grande poesia e non grandi poesie, certo risultati fra i piú limpidi e felici della poesia cinquecentesca.

Non spostano ed anzi precisano questa soluzione del problema critico della Stampa né le poesie per il nuovo amore che qualche critico mise al disopra delle altre[17], né quelle del «pentimento».

Nelle prime possono far velo al giudizio le suggestioni biografiche e la compattezza offerta dal nuovo romanzetto con Bartolomeo Zen, ma in realtà anche qui l’appoggio di romanzo è minimo e, quanto a resa poetica e a direzione della sua ispirazione, nulla è cambiato: la stessa grazia, gli stessi pericoli di loquacità e facilità, la stessa ricerca di melodia, in cui la vivacità delle «situazioni» non può essere presa per dramma, come certo uso di paragoni e citazioni religiose non può essere certo giudicato come effetto di passione ingenuamente empia, ma è tutto attenuato in un tono quasi sorridente, quasi di tenero e inoffensivo scherzo. Cosí nel sonetto CCXVII:

– Ama chi t’odia – grida da lontano –

non pur chi t’ama – il Signor, che la via

ci aperse in croce da salire al cielo.

Riverite la sua possente mano,

non cercate, signor, la morte mia,

ché questo è ’l vero et a Dio caro zelo.

Quanto alle rime di «pentimento», preparate da un capitolo di esaltazione dello stato monastico, non privo di frasi assai indicative per la «mondanità» della Stampa

(Infelici noi, povere e meschine,

serve di vanità, figlie del mondo,

lontane, aimè, da l’opre alte e divine!),

lo stesso sentimento religioso risente della tenerezza affettuosa della Stampa e ben si adegua alla sua poetica del «dolce ardore», e del canto soave e melodioso. Dio è sempre il «dolce signor», un Dio pietoso, un Dio a cui ci si può rivolgere con una certa confidenza affettuosa, piú che con il fervore alto della Colonna. Ed è su questo tono di dolce affetto e nella misura delle sue cose migliori che la Stampa canta il suo ultimo e famoso sonetto, tutto intessuto di ricordi petrarcheschi, ma privi dell’accesa religiosità dell’autore dei Psalmi poenitentiales:

Mesta e pentita de’ miei gravi errori...

dolce Signor, non mi lasciar perire!

(1950)


1 L. Carrer, Anello di sette gemme o Venezia e la sua storia, considerazioni e fantasie, Venezia 1838.

2 Sonetto CCVIII dell’edizione Salza (Rime di G. Stampa e V. Franco, Bari 1913).

3 Saggio citato, p. 83.

4 Saggio citato, p. 95.

5 Il Cesareo scrisse poi G. S. donna e poetessa, Napoli 1920.

6 In difesa di G. S., in «Ateneo veneto», XXXVIII.

7 Il processo di G. S., in Studi di letteratura moderna, Milano 1915.

8 Nuove discussioni intorno a G. S. e la società veneziana del suo tempo, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1917.

9 Critica, 1914, poi in Conversazioni critiche, II (Bari 1918). Il Croce si era già occupato della Stampa in un articolo giovanile (in Rassegna degli interessi femminili, Roma 1887) staccandosi già dalle esagerazioni romantiche e postromantiche. Essenziale poi il suo saggio in Poesia popolare e poesia d’arte (Bari 1933).

10 G. S., Messina 1922. Per la lettura critica piú moderna importanti le pagine delle storie letterarie del Momigliano, del Sapegno, del Flora.

11 Sette libri di cataloghi, Venezia 1552, p. 475. E musicisti come il Parabosco e Pierchon de La Rue furono in relazione con la Stampa.

12 Il Croce aveva circoscritto il valore del Canzoniere con una generale limitazione: «Fu donna; e di solito la donna, quando non si dà a scimmiottare l’uomo, si serve della poesia sommettendola ai suoi affetti, amando il proprio amante o i propri figli piú della poesia» (Conversazioni critiche, II, Bari 1918, p. 225).

13 Come dice il Donadoni, op. cit., p. 41, che pure vide della Stampa i limiti, ma ne esagerò romanticamente l’abbandono e la passione.

14 Borgese disse «fra Canzoniere del Petrarca e Werther»!

15 Si possono vedere in tal senso i sonetti III, VIII, X, XIII, XV, XVI, XXXIX, CXIV, CLVII, nei quali si insiste sul «troppo alto soggetto», sui limiti della sua arte e della sua «vena», si invoca amore dittatore di stile con il tipico tono di chi vuol fare capire quanto gli stia a cuore la dote di cui scusa la mancanza. E in realtà la Stampa aveva il suo «stile», anche se non passato attraverso una elaborazione complessa, paragonabile a quella di altri lirici cinquecenteschi.

16 Già Lorenzo il Magnifico aveva parlato di gravità e dolcezza (Comento: Opere, Bari 1939, I, p. 21) come di due poli essenziali dell’espressione poetica e poi il Bembo aveva addirittura canonizzate due qualità poetiche (coesistenti nel Petrarca in un prezioso equilibrio) accentuabili anche in linee diverse: appunto gravità e piacevolezza (Prose della volgar lingua, ed. Dionisotti, Torino 1931, p. 51). E se lui stesso si propose sempre un contemperamento delle due direzioni espressive, molto spesso i petrarchisti cinquecenteschi cercarono accentuazioni autonome dell’una o dell’altra fino all’asprezza e alla leggiadria.

17 Vedi F. Neri, Le rime ultime di G. Stampa, in Saggi di letteratura italiana, francese e inglese, Napoli 1936: «In questo esiguo manipolo – le rime ultime – è chiuso il valore poetico, e forse anche l’enigma ora insidiato di G. Stampa» (p. 273). Certo il tema della «nata per l’amore» dà origine a tre sonetti (il CCVII, il CCVIII e il CCXXI) assai belli e chiarificatori per la vera situazione sentimentale della giovane poetessa Anassilla: e specialmente bello il CCXXI degna chiusura del «Canzoniere»:

A mezzo il mare, ch’io varcai tre anni

fra dubbi venti, ed era quasi in porto,

m’ha ricondotta Amor, che a sí gran torto

è ne’ travagli miei pronto e ne’ danni;

e per doppiare a’ miei disiri i vanni

un sí chiaro oriente agli occhi ha porto,

che, rimirando lui, prendo conforto,

e par che manco il travagliar m’affanni.

Un foco eguale al primo foco io sento,

e, se in sí poco spazio è tale,

che de l’altro non sia maggior, pavento.

Ma che poss’io, se m’è l’arder fatale,

se volontariamente andar consento

d’un foco in altro, e d’un in altro male?

Ma non si tratta di un nuovo atteggiamento, quanto di una precisazione del costante nucleo poetico stampesco sempre lontano dall’unica passione drammatica e di una continuazione della sua essenziale poetica del piacente e del cantabile.